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BEYÜL - La Valle Segreta della Psiche

Aggiornamento: 23 mag 2023

Beyül in tibetano vuol dire Valle Segreta, nascosta. Si tratta di valli evidenti allo sguardo di tutti e quindi accessibili a tutti, ma in realtà totalmente sfuggenti a chi non ha coltivato il giusto tipo di attenzione. Per vedere un beül occorre uno sguardo disteso e affilato, sottile, puro e lucido. Solo così si aprono i portali del benessere profondo, eudemonico, genuino, indelebile.

Valli come queste sono presenti attraverso tutto l’Himalaya. Esistono indicazioni scritte e persino mappe che indicano la via per trovarle.

In queste valli nell’ottavo secolo Yeshe Tsögyal, la mistica consorte del santo indiano Padmasambhava, nascose gli insegnamenti che il guru riteneva inadatti per i tempi correnti, ma che sarebbero stati rivelati ai "tertön", santi specializzati nel ritrovamento di tesori spirituali, man mano che il mondo fosse stato pronto ad accoglierli.

Alcuni di questi beyül corrispondono con la nostra geografia. Un esempio è il Khumbu, la valle degli Sherpa e del monte Chomolongma - Grande Madre ( che noi chiamiamo ancora col nome coloniale di Everest), mentre altri beyül, con i loro tesori, non sono stati ancora stati svelati.

Affascinato dal mondo himalayano mi sono avventurato varie volte in valli “beyül”, all’inizio senza neanche accorgermi che stavo entrando in uno spazio sacro.

All’epoca camminavo distratto dai miei pensieri, dagli obbiettivi alpinistici, da dolorini muscolari, dalla spettacolarità di un panorama o dall’originalità di un’antica pittura in un monastero. La mia mente era costantemente presa da ansiette, da eccitazioni o da fredde ruminazioni intellettuali, del tutto sconnesse dalla natura del mondo in cui ero immerso. Non mi chiedevo da dove venisse questo continuo e caotico flusso mentale, non mi rendevo nemmeno conto che mi trascinava costantemente via dal qui ed ora, dal ritmo dei miei passi. Avanzavo in una valle sacra ma vedevo una valle che, per quanto bellissima, mi appariva ordinaria.

Ordinario in realtà era il mio sguardo, avevo gli occhi foderati di prosciutto, come si dice.

Lentamente questi trekking himalayani però hanno iniziato a cambiare il mio modo di vedere il mondo e me stesso. L’impulso a camminare sembrava nascere da qualcosa di più profondo della voglia di scalare una montagna, di girare un documentario o di raccogliere dati antropologici. La verità è che inconsapevolmente agognavo al sacro e che per vergogna nascondevo a me stesso quella profonda ambizione ...ma la ricerca del sacro fuori da me stava risvegliando qualcosa di sacro in me.

Mi iniziai ad interessare più alle persone che alle vette, alla loro visione piuttosto che alla loro cultura, alla indicibile grandiosità di una montangna piuttosto che alla sua altezza esatta. Mi resi conto che il mio sguardo ordinario era rapace, avido di tutto quel che luccicava ma incapace di cogliere pienamente la quiete di un panorama.

Un giorno c’è stato un salto, un vecchio equilibrio si è rotto e sono stato profondamente preso da un senso di appartenenza.

Mi ero ritrovato nel villaggio di Sermatang immerso nella semioscurità del suo lhakhan, del suo tempio. Pur non capendo nulla della cerimonia che si svolgeva ero profondamente emozionato dai canti, dal ritmo dei grossi tamburi, dalle immagini del coloratissimo tempio. Seduta vicino all’altare sembrava esserci una statua alta come un bambino di sei anni completamente coperta di teli bianchi e con in testa una corona a cinque punte. In realtà si trattava del corpo di una donna anziana morta quarantanove giorni prima, una madre, nonna e vedova che aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita meditando. Quel corpo invece di emanare odore di morte emanava un profumo di fresco e di fiori che si mischiava all’incenso dell’altare.

Questa cerimonia durata giorni era un evento importante per tutto il villaggio. Non si piangeva, i bambini giocavano. Malgrado la povertà ci si permetteva qualche fasto. Piangere, mostrare tristezza erano considerati delitti contro la defunta, modi per farla sentire in colpa e impedirgli di affrontare serenamente il trapasso alla vita successiva e alla possibilità di tornare nel samsara come "bodhisattva", come compassionevole essere illuminato.

Stavo vivendo qualcosa che ricordava la morte di mio padre ma che nulla aveva a che vedere con la mia esperienza della morte. Da ragazzo avevo sofferto quel lutto come un dolore rimosso, affogato nell'apnea della frustrazione, del conflitto, del pessimismo, dell’accidia sia dentro di me che intorno a me.

Lì a Sermatang invece respiravo e intorno a me la cerimonia funebre esaltava la vita, il vivere e il sentimento di appartenenza che "la grande livella" rendeva comunione.

Nel piccolo villaggio yolmo la cerimonia continuò con una processione fuori dal tempio e fuori dal villaggio, in un luogo destinato alla cremazione. Per tutto il tragitto il corpo rimase seduto sulla portantina fino alla pira funebre. Mi spiegarono che quel corpo non era stato sempre così piccolo che la donna era stata relativamente corpulenta in vita ma aveva raggiunto un tale livello spirituale che durante i 49 giorni del bardo il suo cadavere si era ridotto moltissimo emettendo arcobaleni, piogge di petali profumati e altri segni miracolosi.

In questo tsunami spirituale in cui ero involontariamente finito il senso della parola beyül lo sentii sotto la pelle, altro che spiegazione antropologica! Non solo il tempio era sacro, ma era sacro anche il villaggio, anche il boschetto che il sentiero attraversava per raggiungere il poggio della cremazione. L’intera collina era sacra, la valle sottostante, le montagne, il cielo. Erano sacre le persone, gli animali e gli esseri che popolavano quel mondo. L’intero pianeta era sacro. Persino io ero sacro e quasi me ne vergognavo. Sentivo scrosciare fuori di me fiumi neri di sensi di colpa verso la famiglia, la società, il mondo e quel dio punitivo e dogmatico che mi era stato insegnato. Provavo una nausea liberatoria per le frustrazioni dovute alla visione materialista algida e ottusa che avevo assorbito per anni. Era un materialismo inculcato e sbandierato in tv come in strada, nell’aula universitaria come al bar, sulla vetta del Monte Bianco come al cimitero.

Lì in quel momento mi sembrava di essere su un altro pianeta e mi chiesi se forse questa nostra piccola Terra in fin dei conti non fosse tutta un Beyül iche dissacravamo per ottusa inconsapevolezza. Rimasi così in sospeso, con la mente nel vuoto, finché Biru non venne a chiamarmi per riprendere il cammino.

....Negli anni ho ricevuto dai Lama tantissime spiegazioni per i fenomeni strani che ho sfiorato in Himalaya: il mio sano e tenace scetticismo, ancora vivo e ben radicato, non può che piegarsi con rispetto e gratitudine a una visione che mi ha riempito il cuore e la vita di gioia. Spero di riuscire a condividerne in questo blog almeno qualche goccia.


Di certo c'è che una valle segreta è accessibile solo cambiando lo sguardo sul mondo. È solo smettendo di cercare in modo rapace di appropriarsi del nostro pianeta che la sacralità dei luoghi si manifesta e il nostro cuore si libera da fardelli inutili. Forse è così che è nato il Mindtrek, da una visione che nasce spontaneamente nel silenzio di una mente che cammina.

nepal trekking buddismo meditazione mindfulness

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